Non è comune conoscere il nome delle persone, a volte di umilissima origine, che hanno prodotto duemila anni fa i piatti e le coppe in ceramica. Questi servizi da tavola erano utilizzati quotidianamente come stoviglie per bere e per consumare i cibi da parte di famiglie di modeste condizioni sociali ed economiche.
Alcuni fìguli, gli artigiani ceramisti romani, ci hanno tramandato il loro nome, lasciandolo come marchio di fabbrica sui loro prodotti. Si tratta di imprenditori di successo, ma anche di liberti e schiavi, di cui non possediamo alcuna immagine né conosciamo la vita, ma ci resta dopo ben duemila anni il ricordo del loro nome impresso su un piccolo coccio di ceramica.
Tra i 58 bolli ritrovati a Imperia, la maggior parte appartiene al complesso di botteghe guidate da un fortunato ed ambizioso imprenditore, che si firma ATEI o ATE, da identificarsi con Gnaèus Atéius : egli inizia la sua attività ad Arezzo e poi apre nuove fornaci a Pisa, in Campania e sicuramente in Gallia. Ad Ateius fanno capo altri personaggi, tutti schiavi o liberti, che lasciano il proprio marchio su diversi vasi, quali Euhodus, Xanthus, Zòilus e Crestus.
Ad ambito pisano sono riferibili anche Valerius Volùsus e Mùrrius, mentre altre firme sono provenienti da Arezzo: Umbrìcius, Gaius Volusénus, Sauféius, Séstius o di origine incerta come Avìllius.
Alla più tarda fase della produzione, nella seconda metà del primo secolo della nostra era, si riferiscono solo cinque bolli, nella tipica forma in planta pedis, attribuibili ad artigiani pisani come Lucius Rasìnius Pisanus e Séxtus Mùrrius Festus.
Tra i vasai sud-gallici si sono conservati i nomi di Mapònus, Sulpìcius, Silvànus, Cotto, Logirnus, Ardacus, Marsus, Vebrus e forse Mommo, Licinus e Vìnius.